CONTENUTI > Articoli > 2017 > 06 > FAST FASHION
FAST FASHION
Il costo sociale della moda
FAST FASHION: IL COSTO SOCIALE DELLA MODA.
Mia madre, in risposta alle mie richieste adolescenziali di abiti “alla moda” del momento,
spesso raccontava di come sua madre, in tempo di guerra, avesse cucito dei vestiti per Lei e le
sue sorelle utilizzando come tessuto le tende che avevano in sala da pranzo e di come tali abiti
fossero stati ammirati dalle loro coetanee. Mi ha sempre colpito questo racconto espressione di
una “forza d’animo” che, allora, aiutò intere generazioni e donne come mia nonna a non
arrendersi. Erano tempi diversi! Le giacche e i cappotti si risvoltavano per farli durare più a
lungo. Tali comportamenti rientravano nelle abitudini di una società lontana dal consumismo di
oggi che, da alcuni anni, ha imposto sul mercato il fenomeno della cd FAST FASHION: strategia
commerciale che ha lo scopo di stimolare l’acquisto ed il consumo nel settore dell’abbigliamento
sviluppando sempre nuove e diverse tendenze nella moda, facilmente fruibili in termini di costo.
I capi di vestiario e i cd “accessori” hanno, così, vita brevissima. Nel corso di una stessa
stagione escono più collezioni e nel giro di soli 15 gg un abito non è più “alla moda”. Quando
nacque la produzione in serie delle grandi catene, negli anni 80, il fenomeno diede vita ad un
processo di “democratizzazione della moda” permettendo a chiunque, in tal modo, di vestire
seguendo le tendenze e le mode del momento con una modica spesa. Infatti marchi come Zara
o H & M, anni addietro, fondarono il loro successo commerciale nella riproduzione, ai limiti del
plagio, di abiti che imitavano gli stili e le collezioni dei grandi stilisti vendendoli a prezzi
accessibili. Oggi, invece, i motivi del successo del fast fashion consistono nella riduzione dei
tempi di produzione e nella “ capacità di interpretare i gusti del consumatore “ se non,
addirittura, indirizzarli. Si pensi ad esempio alle nuove professioni come fashion leader, fashion
blogger che nascono con lo scopo di produrre tendenze moda attraverso l’emulazione di
comportamenti e azioni di persone di successo attraverso il web, i social e ogni altro mezzo di
comunicazione di massa. Nel sistema è presente, però, un altro fattore molto importante e
purtroppo poco “conosciuto”: l’uso di manodopera a basso costo! Infatti, le aziende che operano
con questa formula producono in diversi stabilimenti sparpagliati in tutto il mondo (spesso in
Paesi poveri) e generalmente in conto terzi , garantendosi così un notevole risparmio sia sui
costi di manodopera che su quelli di magazzino e di spedizione. Di recente H&M e Gap sono
state criticate per le condizioni di lavoro delle donne impiegate nelle aziende da cui si
riforniscono. Nel 2015 più di 7000 operaie, costrette a lunghi spostamenti su mezzi di
fortuna, sono rimaste ferite in incidenti stradali e 130 sono morte. Per non parlare dei luoghi di
lavoro! E’ ancora vivo il ricordo del crollo, nel 2013, del Rana Plaza a Dacca, in Bangladesh, un
palazzo di nove piani con moltissimi laboratori di manifattura tessile, in cui morirono ben 1.129 persone. Ma c’è di più! Il basso costo della moda veloce oltre al prezzo sociale descritto incide
anche sulla qualità e il costo delle materie prime utilizzate. Il settore della moda e del tessile
rappresenta la seconda industria più inquinante del mondo, seconda soltanto a quella del
petrolio. Un quarto di tutte le sostanze chimiche prodotte in tutto il mondo sono utilizzate nel
settore tessile. Molte di queste si presentano sotto forma di poliestere e altre fibre sintetiche
che richiedono grandi quantità di petrolio grezzo. Inoltre nomi complicati quali ftalati e
formaldeide nascondono una subdola minaccia anche per la nostra salute. Secondo uno studio
realizzato dalla UE il 7-8% delle patologie dermatologiche è dovuto a ciò che indossiamo senza
contare poi la difficoltà dello smaltimento di queste sostanze sintetiche che quindi
contribuiscono anche all’inquinamento ambientale. La lista dei tessuti tossici è lunga e va
dal nichel “nascosto ” nei coloranti per tingere, ai Clorofenoli (Pcp, Tpc e relativi sali) utilizzabili
come antimicrobici e antimuffa prima dell’immagazzinaggio e del trasporto, fino agli
antiparassitari, presenti soprattutto nei capi realizzati con fibre naturali, che sono costituiti dai
residui delle dosi massicce usate per “sanificare” i container che trasportano i capi di
abbigliamento da una parte all’altra del mondo. L’etichetta, diversamente da altri prodotti, in
questo caso non è di alcun aiuto al consumatore. Il regolamento UE del 2012 non impone
nemmeno più l’obbligo della indicazione del luogo di produzione e quanto alla composizione dei
tessuti bisognerebbe avere una conoscenza tecnica specifica per l’interpretazione ed
intelligibilità di quanto riportato. Come proteggersi, allora? Ecco alcuni trucchi per vestire sano:
1- Evitare di far indossare a bambini e adolescenti capi di dubbia qualità, soprattutto per quanto
riguarda l’abbigliamento intimo. 2-fare attenzione ai capi colorati, soprattutto neri, blu e in
parte anche rossi, sono senz’altro quelli più pericolosi perché potrebbero nascondere tracce di
nickel . 3- Verificare (quando l’etichetta lo riporta) dove il capo è stato prodotto: gli abiti fabbricati
in Europa e in Italia sono tendenzialmente più sicuri di quelli prodotti in altri Paesi. 4- Non
acquistare abiti sulle bancarelle o eventualmente lavarli almeno due volte prima di indossarli. 5-
Diffidare dai capi venduti ad un prezzo molto basso. 6 Per lo sport preferire tinte chiare e fibre
naturali (il sudore e il calore favoriscono l’assorbimento delle sostanze chimiche). 7- L’etichetta
mancante o contraffatta è sempre un indizio di pericolosità. Infine ciò che è importante è
soprattutto essere più critici ed esigenti nei nostri acquisti. Verificare il prezzo sociale e non solo
economico di un prodotto è una conquista di civiltà e di valore. Non ingoiate il rospo! Mai!
Avv. Raffaella D’Angelo Ufficio Legale Codacons